Il disco de Il Complesso di Tadà è uno degli album di cover più interessanti dell'anno e ne ho scritto qualche settimana da per Rockol
Abbiamo fatto qualche domanda a Massimo Martellotta, leader del gruppo e chitarrista dei Calibro 35.
Come sono state scelte le cover presenti?
Il disco è la deriva discografica del format che ho ideato per la TV chiamato “TADA’!”: un tuffo di 5 minuti nei favolosi anni ’60, presentato da Filippo Timi e girato in bianco e nero dai veri studi di registrazione “Officine Meccaniche” in Milano. Ogni giorno un ospite di oggi si cimentava con un brano del passato ed era importante cercare brani che avessero un immediato rimando all’immaginario condiviso. Abbiamo seguito quindi il gusto personale, incrociandolo anche con le proposte degli artisti stessi e le esigenze televisive.
Nel caso di Nina Zilli ad esempio è stata una sua proposta, “il surf delle mattonelle” è un brano che eseguiva tempo fa, aveva piacere a rifarlo e mi è sembrato perfetto per avere il momento “twist” nello show televisivo.
Nel caso di Elio invece ( “Mah Na Mah Na” ) ha sposato immediatamente l’idea che gli avevamo proposto.
Su “Parole Parole”, avendo Filippo Timi e Serena Altavilla non potevo farmi scappare l’occasione di sentire cosa ne sarebbe venuto fuori, con un Timi a la Alberto Lupo e Serena Altavilla nell'impossibile compito di dover essere paragonata a Mina, ma con la gran gioia di cantare uno dei brani più iconici in Italia, assieme ad un attore che stimiamo moltissimo. “Se perdo Te” è un brano che adoro da sempre, e a mio avviso Serena riesce a confrontarsi con questi classici con grandissimo rispetto ed un’interpretazione assolutamente immediata, senza scimmiottare nulla e sentendo profondamente il brano. E’ una dote che incontro molto raramente.
Cosa è rimasto fuori?
Avevamo una rosa di una cinquantina di abbinamenti tra artisti e brani tra cui scegliere, e sono molto contento di esser riuscito ad includere i classiconi che son finiti nel disco. Spero di poter fare anche le altre se dovessimo continuare il programma.
Da cosa deriva la tua passione per la musica anni 60?
Molto di quello che ascolto da sempre arriva principalmente da quel periodo. Ascolto anche cose recenti, costantemente, ma per qualche motivo ho una spinta molto naturale a parlare quel linguaggio in campo musicale. Forse perché sono cresciuto in una città dove c’era un piccolo negozio di strumenti musicali che era un vero e proprio tempio del vintage, ci passavo tutti i sabati e dai 14 ai 19 anni ho sempre suonato solo strumenti degli anni ’60.
La mia grossa fortuna è che non sono un vero fanatico del periodo, e questo mi permette di essere rispettoso sul materiale perché lo frequento e lo porto in giro da anni, anche grazie all’esperienza continua di ricerca che faccio con i Calibro 35, ma mai dogmatico, cosa che spesso ingabbia chi invece si affeziona in maniera maniacale alle cose.
Quando si toccano "mostri sacri" come Mina Patty Pravo e Gino Paoli le critiche sono sempre dietro l'angolo. Eravate preoccupati?
Credo che le cose rivolte al pubblico, e la musica lo è per definizione, abbiano in sé un messaggio che ognuno interpreta e fa proprio.
La cosa importante è trattare i brani cui ti rifai con grande rispetto per la scrittura, che vuol dire secondo me cercare di interiorizzare il più possibile il materiale originale e, nel caso delle canzoni, interpretare il cantato in maniera onesta, pensando al testo e alla musica, rispettando la storia che si sta raccontando.
Ovviamente bisogna conoscere il materiale a fondo, e noi abbiamo agito con amore e rispetto, ed è tutto quello che ci vuole per dare la possibilità alle persone di entrare in un mondo speciale per 4 minuti.
Considerare “intoccabili” dei patrimoni strepitosi come il nostro sarebbe solo una perdita per la musica. Quando con i Calibro 35 abbiamo affrontato Morricone ad esempio, ci siam messi con grande umiltà a studiare un’icona del nostro tempo, ed è stato bello perché nel tempo molte delle nostre versioni dei suoi brani le sentiamo spesso programmate in TV. E questo è un po’ anche il senso del recupero. Calarsi nello spartito originale, interiorizzarlo e farne una tua interpretazione onesta. E’ tutto qua, molto semplice e lineare. Con i Calibro sono dieci anni ormai che portiamo in giro con successo un certo patrimonio italiano e brani originali. La dialettica del “mostro sacro intoccabile” appartiene ad un livello diverso, di fanatismo puro, che a mio avviso insulta e banalizza la grandezza e la potenza di una canzone ben scritta.
La musica non è fanatismo, è magia. E il mio modo per ringraziare chi si è inventato quei mondi meravigliosi di 4 minuti chiamate canzoni, è farlo in punta di piedi e con il massimo trasporto possibile. E con Tadà ce l’abbiam messa tutta, siamo molto contenti.
Molte delle canzoni che avete scelto erano a loro volta cover di canzoni internazionali. Le versioni italiane erano migliori degli originali?
Non credo ci siano versioni migliori di altre, sicuramente un brano nato in una lingua e cantato con il testo originale può avere una forza più attinente all’intenzione originale dell’autore. La traduzione di un testo è un’arte a se, e a volte può essere anche bizzarra. Ma io amo molto le traduzioni, spesso le caratteristiche linguistiche si portano dietro una forte impronta legata ai costumi del paese che rappresentano e questo è sempre molto interessante.
Come sono state scelte le cover presenti?
Il disco è la deriva discografica del format che ho ideato per la TV chiamato “TADA’!”: un tuffo di 5 minuti nei favolosi anni ’60, presentato da Filippo Timi e girato in bianco e nero dai veri studi di registrazione “Officine Meccaniche” in Milano. Ogni giorno un ospite di oggi si cimentava con un brano del passato ed era importante cercare brani che avessero un immediato rimando all’immaginario condiviso. Abbiamo seguito quindi il gusto personale, incrociandolo anche con le proposte degli artisti stessi e le esigenze televisive.
Nel caso di Nina Zilli ad esempio è stata una sua proposta, “il surf delle mattonelle” è un brano che eseguiva tempo fa, aveva piacere a rifarlo e mi è sembrato perfetto per avere il momento “twist” nello show televisivo.
Nel caso di Elio invece ( “Mah Na Mah Na” ) ha sposato immediatamente l’idea che gli avevamo proposto.
Su “Parole Parole”, avendo Filippo Timi e Serena Altavilla non potevo farmi scappare l’occasione di sentire cosa ne sarebbe venuto fuori, con un Timi a la Alberto Lupo e Serena Altavilla nell'impossibile compito di dover essere paragonata a Mina, ma con la gran gioia di cantare uno dei brani più iconici in Italia, assieme ad un attore che stimiamo moltissimo. “Se perdo Te” è un brano che adoro da sempre, e a mio avviso Serena riesce a confrontarsi con questi classici con grandissimo rispetto ed un’interpretazione assolutamente immediata, senza scimmiottare nulla e sentendo profondamente il brano. E’ una dote che incontro molto raramente.
Cosa è rimasto fuori?
Avevamo una rosa di una cinquantina di abbinamenti tra artisti e brani tra cui scegliere, e sono molto contento di esser riuscito ad includere i classiconi che son finiti nel disco. Spero di poter fare anche le altre se dovessimo continuare il programma.
Da cosa deriva la tua passione per la musica anni 60?
Molto di quello che ascolto da sempre arriva principalmente da quel periodo. Ascolto anche cose recenti, costantemente, ma per qualche motivo ho una spinta molto naturale a parlare quel linguaggio in campo musicale. Forse perché sono cresciuto in una città dove c’era un piccolo negozio di strumenti musicali che era un vero e proprio tempio del vintage, ci passavo tutti i sabati e dai 14 ai 19 anni ho sempre suonato solo strumenti degli anni ’60.
La mia grossa fortuna è che non sono un vero fanatico del periodo, e questo mi permette di essere rispettoso sul materiale perché lo frequento e lo porto in giro da anni, anche grazie all’esperienza continua di ricerca che faccio con i Calibro 35, ma mai dogmatico, cosa che spesso ingabbia chi invece si affeziona in maniera maniacale alle cose.
Quando si toccano "mostri sacri" come Mina Patty Pravo e Gino Paoli le critiche sono sempre dietro l'angolo. Eravate preoccupati?
Credo che le cose rivolte al pubblico, e la musica lo è per definizione, abbiano in sé un messaggio che ognuno interpreta e fa proprio.
La cosa importante è trattare i brani cui ti rifai con grande rispetto per la scrittura, che vuol dire secondo me cercare di interiorizzare il più possibile il materiale originale e, nel caso delle canzoni, interpretare il cantato in maniera onesta, pensando al testo e alla musica, rispettando la storia che si sta raccontando.
Ovviamente bisogna conoscere il materiale a fondo, e noi abbiamo agito con amore e rispetto, ed è tutto quello che ci vuole per dare la possibilità alle persone di entrare in un mondo speciale per 4 minuti.
Considerare “intoccabili” dei patrimoni strepitosi come il nostro sarebbe solo una perdita per la musica. Quando con i Calibro 35 abbiamo affrontato Morricone ad esempio, ci siam messi con grande umiltà a studiare un’icona del nostro tempo, ed è stato bello perché nel tempo molte delle nostre versioni dei suoi brani le sentiamo spesso programmate in TV. E questo è un po’ anche il senso del recupero. Calarsi nello spartito originale, interiorizzarlo e farne una tua interpretazione onesta. E’ tutto qua, molto semplice e lineare. Con i Calibro sono dieci anni ormai che portiamo in giro con successo un certo patrimonio italiano e brani originali. La dialettica del “mostro sacro intoccabile” appartiene ad un livello diverso, di fanatismo puro, che a mio avviso insulta e banalizza la grandezza e la potenza di una canzone ben scritta.
La musica non è fanatismo, è magia. E il mio modo per ringraziare chi si è inventato quei mondi meravigliosi di 4 minuti chiamate canzoni, è farlo in punta di piedi e con il massimo trasporto possibile. E con Tadà ce l’abbiam messa tutta, siamo molto contenti.
Molte delle canzoni che avete scelto erano a loro volta cover di canzoni internazionali. Le versioni italiane erano migliori degli originali?
Non credo ci siano versioni migliori di altre, sicuramente un brano nato in una lingua e cantato con il testo originale può avere una forza più attinente all’intenzione originale dell’autore. La traduzione di un testo è un’arte a se, e a volte può essere anche bizzarra. Ma io amo molto le traduzioni, spesso le caratteristiche linguistiche si portano dietro una forte impronta legata ai costumi del paese che rappresentano e questo è sempre molto interessante.
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